Succede sempre più spesso, senza distinzioni di categoria, budget e posizione di classifica: i presidenti delle società di calcio hanno ormai da tempo scelto la strada del decisionismo e dell’accentramento dei poteri a tutti i livelli. E’ pure logico che chi metta a disposizione dei capitali, voglia sapere che fine facciano o decidere come impiegarli quando si tratti di scelte decisive, strategiche, senza ritorno in un certo senso. Tuttavia, in Campania in questa stagione i due club di massima serie non hanno dato prova di grande lungimiranza o di una particolare illuminazione nelle scelte prese, volute, imposte dai rispettivi proprietari. Se a Napoli De Laurentiis ha scelto da sé il successore di Spalletti per poi ingaggiare un direttore sportivo come figura quasi decorativa dell’organigramma, a Salerno Danilo Iervolino ha prima confermato un allenatore da cui si sentiva lontano dopo le frizioni di giugno circa i programmi di mercato e da cui era stato ferito e deluso nelle settimane in cui, clausola alla mano, Sousa parlava con poco meno di dieci club prima di rientrare nei ranghi ed accettare, come da pec, il rinnovo con la Salernitana, e poi sfiduciato anche il direttore sportivo. Quel rinnovo di Sousa appariva fin da subito una sorta di atto dovuto da parte della società ed una specie di imposizione ben retribuita per il portoghese. L’amore non era viziato, era già finito prima ancora che si andasse in ritiro dove pure faceva caldo e l’aria condizionata non c’era, ma a rendere torrida ed esplosiva la situazione era quello stallo sul mercato che il tecnico mal sopportava e che il diesse De Sanctis cercava con pazienza e diplomazia di sbloccare facendo da mediatore tra le varie posizioni. In mezzo c’era la squadra, che si allenava sempre sul campo come era sotto gli occhi di tutti quelli presenti, anche solo per un paio di giorni, a Rivisondoli, senza battere le stradine di montagna per ripetute ed allunghi. Ogni allenatore ha le sue metodologie e, del resto, se Zeman, Gasperini e Juric, per non parlare di Conte, sono famosi per imporre ai propri calciatori allenamenti molto duri, per Sousa era una sorta di anno zero e, dunque, né il presidente, né la dirigenza, né altri potevano sapere come il portoghese ed il suo staff avrebbero impostato la preparazione, visto che l’anno precedente era subentrato. Essendo sul posto, però, avrebbero potuto farsi qualche domanda, ma evidentemente all’epoca tutto sembrava nella norma. E, del resto, era anche giusto fidarsi del lavoro di un tecnico che, si ricorderà benissimo, all’atto dell’esonero di Nicola, quando da mesi molti facevano notare come la squadra si fosse allenata poco sia nel ritiro austriaco in estate sia in quello invernale in Turchia, aveva da subito saputo incidere. Insomma, quando le cose vanno male, testa e gambe di un gruppo sono sempre i punti più sensibili e su quelli si concentra il nuovo allenatore. Lo scorso febbraio, del resto, anche Sousa intensificò e cambiò i ritmi e gli schemi di lavoro durante la settimana, aggiungendo poi un innegabile tocco di qualità sul piano squisitamente tecnico. Il ritiro è andato come è andato, ora tocca ad Inzaghi dare una scossa toccando le corde giuste ed è innegabile che il nuovo allenatore ci stia mettendo tantissimo impegno per invertire la tendenza. Lavorare tanto sul campo e restituire fiducia al gruppo è la ricetta più diffusa in questi casi e, si spera, possa rivelarsi vincente. Ciò che questo autunno certifica è il fallimento di un certo modo di intendere il calcio da parte dei presidenti che vogliono decidere anche quando dovrebbero quanto meno ascoltare i consigli delle persone giuste, quelle che assumono per svolgere determinate mansioni tanto per fare un esempio. E la moda del momento è accompagnare all’esonero dell’allenatore scelto da sé ma senza troppa convinzione anche una sorta di postuma, anche se quasi immediata, delegittimazione. Garcia e Sousa sono stati esonerati e subito messi alla gogna per colpe che vanno al di là dell’assenza di risultati. Chi li ha scelti, voluti, imposti o anche solo sopportati? I presidenti. Ecco perché anche chi porta il pallone e paga il campo per giocare, a volte dovrebbe avere il coraggio di restare in tribuna perché nel calcio è un attimo e non sempre si resiste alla tentazione di andare in panchina o, magari, spingersi fino a centrocampo dove i riflettori sono sempre accesi.
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