La presenza del Cinghiale sul territorio italiano ed in particolare del sud Italia , con le sue innegabili ripercussioni su alcune attività agricole, ha determinato una serie di prese di posizione in cui spesso è emersa una visione semplicistica del problema che invece va inquadrato nella sua più complessa dimensione, individuandone le cause e valutando le possibili soluzioni.
E a tale proposito occorre ricordare che il Cinghiale rappresenta uno degli esempi più eclatanti della pessima gestione venatoria italiana , basata più sull’improvvisazione, il pressappochismo e una richiesta consumistica piuttosto che su solide e indispensabili basi scientifiche.
Perseguitato accanitamente sin dal secolo XVI il suide, progenitore di gran parte delle razze di maiali domestici, era scomparso da diverse regioni italiane, con un minimo storico toccato subito dopo la seconda guerra mondiale, quando in Calabria , in Campania era presente in piccole aree e in pochi esemplari. Per far fronte alla rarefazione dell’Ungulato, a partire dagli anni ’50 ebbe inizio una massiccia attività di introduzione di Cinghiali provenienti dall’estero, in prevalenza dall’est europeo, caratterizzati da dimensioni, robustezza e prolificità maggiori rispetto ai cinghiali italiani , cui ha fatto seguito l’utilizzo di animali forniti da allevamenti nazionali. Ciò ha determinato una forte espansione territoriale della specie, oggi diffusa dalla Valle d’Aosta alla Calabria (in Sicilia è presente con nuclei sparsi dopo recenti immissioni), espansione favorita anche da alcuni fattori come l’abbandono delle aree collinari e montane: in pratica l’area di distribuzione della specie in Italia si è quintuplicata negli ultimi trent’anni.
Anche in Campania ed in particolare in provincia di Salerno la diffusione delle popolazioni di cinghiali ha avuto risvolti negativi soprattutto per quanto riguarda le interferenze del selvatico con certi tipi di coltivazioni (ad esempio grano, olive, mais e uva), trova la sua causa principale proprio nelle scriteriate operazioni di immissione e di ripopolamento tendenti alla massimizzazione degli abbattimenti, favorite dalle amministrazioni pubbliche con il sostegno delle associazioni venatorie. E così, paradossalmente, mentre da un lato si lamentavano i danni prodotti dall’aumento dei cinghiali sul territorio, continuavano i ripopolamenti e le immissioni, spesso abusive o comunque difficilmente controllabili, di altri cinghiali, con il rischio, tra l’altro, di introduzione di malattie come ad esempio la peste suina che può arrecare danni non solo alle popolazioni degli stessi cinghiali, ma anche ai maiali domestici. Come ricordano giustamente il Prof. Spagnesi, per molti anni direttore dell’Istituto Nazionale della Fauna Selvatica e il Dott. Silvano Toso (egli stesso cacciatore di cinghiali), “questa attività di allevamento e di immissioni è stata condotta in maniera non programmata e senza tenere in minimo conto sia i più elementari principi di gestione faunistica sia le prescritte norme di profilassi sanitaria”.
La stessa tecnica usata per gli abbattimenti, la tradizionale “braccata”, in cui alcuni battitori con le loro mute di cani indirizzano gli ungulati verso le “poste”, è un sistema di caccia non selettivo che produce alterazioni negative della struttura demografica delle popolazioni cacciate in quanto , con l’abbattimento delle femmine capo-branco, provoca la composizione di gruppi costituiti prevalentemente da giovani che per alimentarsi, mancando l’elemento guida, sono costretti ad orientarsi proprio verso le coltivazioni, arrecando quei danni di cui gli agricoltori si lamentano giustamente. Le braccate inoltre, per la partecipazione massiccia delle varie squadre di “cinghialai” con le mute formate spesso da cani di razze diverse, costituiscono un forte elemento di disturbo e di pericolo per altri animali. Capita spesso infatti che qualche cane venga “sviato” da un altro selvatico, così come sono frequentissimi i casi di abbattimenti degli stessi cinghiali con munizione spezzata (pallettoni), anziché a palla unica, nonostante il divieto sancito dall’art.21, comma 1 lett.u della legge quadro.
Quanto al numero di cinghiali presenti sul territorio , parlare di “sovrappopolamento” è quanto meno azzardato, vista la mancanza assoluta di dati reali del prelievo venatorio ( ove consentito) e i dati sulla effettiva consistenza delle popolazioni, la cui dinamica è soggetta ad ampie fluttuazioni in quanto fortemente condizionata da diversi fattori ambientali, come la disponibilità stagionale di cibo, gli incendi, la pressione venatoria ecc.. Né il fatto che i cinghiali arrechino danni all’agricoltura, costituisce di per sé è una prova che i cinghiali stessi siano in sovrannumero rispetto alla capacità portante dell’ambiente, per cui, in mancanza di una conoscenza adeguata di tutte le caratteristiche di una popolazione, quali la densità, l’incremento riproduttivo annuo, la struttura demografica, non si può certo parlare di gestione della specie senza incorrere nella facile demagogia e nel pressappochismo: aumentare gli abbattimenti, anche se selettivi, come richiesto da più parti, non vuol dire automaticamente ridurre l’impatto della specie sull’agricoltura.
E’ strano poi che nessuno abbia mai sottolineato che il cinghiale è cacciato per tre mesi l’anno, che ogni squadra ne può abbattere fino a sei al giorno (ma è capitato che siano stati uccisi anche dieci animali in una giornata da una sola squadra…) e che la specie è sottoposta ad un bracconaggio spietato e crudele mediante l’uso di lacci che provocano spesso lo strazio di altri animali, compresi i cani degli stessi cacciatori; per non parlare di cinghiali lasciati morire e imputridire senza neppure essere recuperati.
Oltre alla necessaria sospensione dei ripopolamenti e al controllo degli allevamenti, ben vengano dunque le indagini serie sul problema, a cominciare dalla raccolta di dati sull’entità dei prelievi, associati all’adozione di un piano preventivo dei danni causati all’agricoltura.
Anziché puntare tutto su un incremento degli abbattimenti per una impossibile eradicazione della specie, si cerchi pertanto di utilizzare tutti gli strumenti previsti dalla legge per dotare gli agricoltori dei mezzi atti a proteggere le colture (come ad esempio recinti elettrificati) e ridurre quindi il conflitto sociale, attuare dopo studi certi campagne per le catture degli ungulati ed il trasferimento in altri luoghi o per altri usi;
Il problema è reale e preoccupante ma che certo non si può risolvere con l’abbattimento indiscriminato in area parco, ricerche scientifiche dimostrano che l’abbattimento non fa altro che aumentare il numero degli animali, mentre l’unica strada è la cattura e il trasferimento in altro luogo, liberando così i terreni colpiti da questa emergenza, ( creata come sempre dall’uomo) e creando un minimo di economia proprio per gli agricoltori colpiti , che se adeguatamente attrezzati con idonee gabbie per la cattura possono trarre profitto a costo zero vendendo gli esemplari catturati;
Inoltre Sia il piano faunistico regionale del 2013 sia il piano di azione del parco nazionale approvato dal ministero dell’Ambiente affrontano il problema cinghiale evidenziando la causa della eccessiva presenza degli ungulati nei ripopolamenti a scopo venatorio attuati prima della istituzione del parco.
Il wwf chiede semplicemente che il problema venga affrontato dall’ente competente nel rispetto delle norme di legge e dei principi etici e scientifici fissati dall’ispra e non da parte di autorità non competenti che non potrebbero attuare azioni efficaci. Altrimenti sembra che sulla base della emotività suscitata dai fatti siciliani si voglia aprire la caccia nel parco nazionale o che si voglia ridisegnare i confini dello stesso. A questo il Wwf si oppone .